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Corpus dei Dialoghi Senechiani

09 agosto 2018 - ore 10,14
corpus_dei_dialoghi_senechiani.jpgArbor Sapientiae è lieta di presentare il nuovo  progetto editoriale dedicato al Dialoghi di Seneca che sarà accolto nella collana IPAZIA:


Corpus dei Dialoghi Senechiani è composto da dieci volumi, distribuiti in dodici libri:

DIALOGORVM LIBRIS X

1. De providentia (ad Lucilium)
2. De constantia sapientis (ad Serenum)
3. De ira (ad Novatum) - libri 3 
4. De consolatione (ad Marciam)
5. De vita beata (ad Gallionem)
6. De otio (ad Serenum)
7. De tranquillitate animi (ad Serenum)
8. De brevitate vitae (ad Paulinum)
9. De consolatione (ad Polybium)
10. Matrem de consolatione (ad Helviam)



A dispetto di tale denominazione (di certo molto antica perché già utilizzata da Quintiliano), non si tratta di veri e propri dialoghi, poiché il filosofo costituisce la voce narrante in prima persona senza che nella trattazione vi siano interventi diretti né di sostenitori né di contraddittori delle tesi esposte nei dialoghi. L'unica eccezione è rappresentata dal De tranquillitate animi, in cui Seneca immagina un colloquio fra sé e l'amico Sereno. 

Il confronto con il precedente letterario latino di dialogo filosofico, le ciceroniane tusculanae disputationes, rende subito evidente la differenza tra la forma dialogica pienamente rispettata dall'illustre predecessore e la forma adottata di dialogo da Seneca, diversa perché diverso era il modello greco di trattazione filosofica a cui Seneca si rifaceva. 

Infatti la classica forma dialogica presente in Platone era andata via via disseccandosi, riducendosi in molte trattazioni filosofiche ad accenni a un avversario ipotetico con espressioni fisse quali: «qualcuno dirà» «tu dici» «tu dirai», dopo cui di solito si esponeva in breve e in modo più vivace, grazie all'artificio retorico del finto contraddittore, una tesi da confutare. 

Questa forma riduttiva e schematizzata di dialogo trova la sua espressione più efficace nella διατριβή [diatribé o diatriba] cinico-stoica, sorta di predica o più pacatamente di conferenza popolare, rivolta cioè a un largo pubblico inesperto di filosofia, in cui alla trattazione sistematica d'un tema o problema filosofico-morale si sostituiva l'esortazione e l'invito ad accettare o abbandonare certi comportamenti che la sommaria dimostrazione di quel tema indicava come buoni o come cattivi. Erano pertanto opere brevi, sciolte e libere da una disposizione rigorosa degli argomenti, vivaci e addirittura, nei cinici soprattutto, violente nell'esposizione del tema, che deliberatamente piuttosto che alla ragione degli ascoltatori si rivolgevano di preferenza al sentimento, alla loro natura predisposta a seguire presumibilmente il bene e fuggire il male. E ampio spazio in quest'opera di accattivarsi e impressionare il sentimento era dato agli esempi da seguire o da fuggire tratti dalla storia e dalla vita di uomini famosi. 

Va aggiunto peraltro che questo stile filosofico incontrava singolarmente quello delle declamazioni retoriche dell'età imperiale fino a Nerone, che, abbandonata la concinnitas ciceroniana della perfetta disposizione degli argomenti e dell'esatto equilibrio degli ampi periodi dove il pensiero era ben bilanciato nei precisi incastri di frasi principali e subordinate, preferiva invece una più libera disposizione degli argomenti per associazione d'idee o d'immagini e periodi più brevi e distaccati tra loro, dove il chiaroscuro delle singole frasi che si susseguivano trovava la sua conclusione nella sententia, la concisa e sentenziosa frase finale che illuminava e metteva in rilievo, per la memoria, il concetto principale da ritenere. Non è dunque solo curiosità aneddotica che buona parte di questo gusto retorico sia giunto a noi nella raccolta di Controversiae e Suasoriae fatta da Seneca padre, colui cioè che per motivi di carriera politica distolse i figli dalla filosofia e li avviò allo studio e alla pratica della retorica. Ciò che naturalmente in queste brillanti ma un po' vacue esercitazioni Seneca però non poteva trovare era la serietà d'intenti e la profondità d'indagine che una διατριβή aveva. Invero questa fusione di stile nervoso e di contenuto filosofico poteva trovarla solo in essa. 

Ora non c'è dubbio che i Dialoghi di Seneca risentano fortemente di questa forma espositiva della filosofia greca di mezzo – cioè dopo il periodo classico di Socrate, Platone e Aristotele – e che molti dei dialoghi senecani sono delle διατριβή adattate a un pubblico e interlocutori romani. Del resto i circoli filosofici che Seneca frequentò giovane coltivavano, nella loro accentuazione dei problemi morali, soprattutto questo genere di trattazione filosofica, spesso in forma direttamente orale, come si addice a una predica appunto. 
Il termine greco però si acclimerà a Roma nella traslitterazione latina di diatrĭba solo più tardi – il primo a usarlo pare sia stato Aulo Gellio – e fu Seneca stesso probabilmente a dare a queste sue opere il nobile termine di Dialogi. Del resto l'uso e l'adattamento che Seneca ne fa comportano parecchie differenze rispetto alla διατριβή greca. Intanto Seneca usa come interlocutori reali, non ipotetici, persone della sua cerchia, in questo similmente alle lettere epicuree, da cui oltre che esortarli può cercare sostegno e appoggio alle sue tesi morali che spesso adombrano la giustificazione filosofica di precisi comportamenti pubblici che il filosofo teneva in quel torno di tempo. E la stretta, e a volte contraddittoria, dipendenza delle opere e dell'azione di Seneca è parte non secondaria del suo fascino. Tutti gli interlocutori poi sono equites (cavalieri) o appartenenti a classi alte della società romana. Ciò che darà all'esposizione di Seneca, pur mantenendo spesso il vigore e la forza satirica dei modelli originali, un tono meno basso e volutamente volgare, urtante addirittura che invece era proprio della predica popolare cinica. Seneca inoltre, sulla scia delle opere filosofiche di Cicerone, romanizzerà molti degli exempla, cioè dei comportamenti esemplari pro o contro una certa tesi morale, traendoli dalla storia romana anche recente, in cui spesso riverserà i suoi odi e le sue amicizie e stime verso figure note con cui ebbe a che fare. Infine molto tipiche di Seneca e dei suoi gusti sono le citazioni, anche queste adattate spesso al significato che a Seneca interessava dare, sparse di poeti: l'amato Virgilio soprattutto e l'“immaginifico” Ovidio, che aveva anticipato in età augustea certi gusti “barocchi”, sdegnosi della classica misura cioè, che fiorirono nell'età neroniana. 

Un po' diverse, avendo caratteristiche proprie, sono le tre Consolationes, che mantengono però la forma schematica di dialogo nel rivolgersi alla persona che si cerca di consolare e confortare nel dolore, e lo scopo principale d'esortazione ad abbandonare un certo comportamento falsamente morale per un altro moralmente corretto. Ad ogni modo se dialogi è termine già senecano e del suo tempo, e se queste opere hanno caratteristiche di forma, di stile e d'argomento – morale – consimili, la loro compilazione in un unico volume e l'ordine che lì vi hanno, è difficile e si tende a escludere che sia opera di Seneca. Quanto all'ordine di composizione, che a grandi tratti è possibile ricostruire, esso è importante per la stretta connessione, già indicata, tra l'opera scritta e il momento in cui viene scritta, riflettendosi nelle singole opere l'atteggiamento e la disposizione psicologica di Seneca nei confronti del potere e della società di Roma che egli aveva in quel dato momento. L'importanza dell'insieme dei Dialogi perciò sta anche nel fatto che la loro composizione, attraversando tutta l'altalenante vita e carriera pubblica di Seneca, ci permette di avere uno sguardo sull'animo e i suoi cambiamenti del grande filosofo a seconda delle alterne fortune politiche. 


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