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Camminando verso Roma e Santiago. La via Francigena di Renato Paone e Ginevra Latini

04 luglio 2014 - ore 08,23
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Articolo su «La Repubblica»
, 23 settembre 2014

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Inevitabilmente, con l’approssimarsi della tanto agognata meta, si accatastano nella mente del pellegrino i ricordi di tutte le avventure, e le sventure, che lo hanno accompagnato lungo la Via. È strano, a tratti irreale, ritrovarsi a soli cinque chilometri dalla fine, soprattutto avendo la possibilità di ammirare dall’alto Santiago e le guglie di quella “sporca”, scura e, ad una prima occhiata, trasandata cattedrale, non proprio la stessa che albergava nei sogni del camminante nelle prime notti di viaggio. Ancor più strano è l’effetto di stare seduti sotto due statue, di dubbio gusto e di certo non le più belle a memoria d’uomo, raffiguranti due pellegrini estasiati dalla visione della cittadina spagnola, che se la indicano a vicenda come a dire: «Guarda, guarda! Ce l’abbiamo fatta. Allora è vero che esiste!».
Diverse le sensazioni che si provano sul Mons Gaudi romano, che spalanca l’orizzonte sulla basilica più importante del mondo e sul suo immenso “Cupolone”, imperturbabile ed imperituro guardiano dell’Urbe. Riscoprire da viandante la Piazza dell’Apostolo per eccellenza, con il suo colonnato e quell’aura di sacralità immanente in ogni pezzo di marmo e sanpietrino, è una gioia immensa. Ogni singolo passo verso la tomba di Pietro, è una sempre più forte presa di coscienza di trovarsi di fronte alla Storia.
Il Pellegrinaggio trasforma radicalmente, dà un senso concreto a quella che nella quotidianità è una semplice parola da ricercare nel dizionario: pellegrino. Il primo senso concreto è dovuto all’etimologia del termine che fa riferimento “all’andare per i campi”, e di campi se ne vedono a bizzeffe, mentre il secondo è dato dalla volontà del singolo, non tutti ma una buona parte, di voler fermare, interrompere, spezzare tutto ciò che vincola l’essere umano alla calda, comoda e materna ordinarietà della vita. Strappo necessario per ricongiungersi alla spiritualità insita in ognuno di noi, che permetterà poi, a chi saprà cogliere i frutti della propria fatica, di riconnettersi al sacro, non per forza un sacro vincolato e veicolato dalla religione, ma che esuli anche da essa.
Percorrere le antiche vie delle peregrinationes può sembrare un semplice viaggio la cui caratteristica principale è data dalla linearità della percorrenza di un moto univoco che guida il viaggiatore da un punto A ad un punto B, ma in realtà è ben più complicato di quanto appare. Si potrebbe tranquillamente obiettare, infatti, a quanti sostengano tale visione, facendo notare loro come effettivamente il movimento del viaggio consista di un moto circolare, ben più profondo rispetto ad un viaggio andata e ritorno. Un normale viaggio si fonda, perlopiù, sulla voglia di svagarsi, di riposarsi e di scoprire cose nuove e divertenti. Finito il tempo prestabilito si molla tutto e si torna a casa, freschi, abbronzati e riposati. I Cammini, invece, catapultano l’ignaro (?) pellegrino in una realtà aliena in cui collidono vari fattori: le motivazioni che lo portano a distaccarsi dal mondo conosciuto, la volontà di raggiungere la meta fissata, prima nella mente e solo in seguito sulla cartina geografica, il significato che assume la nuova esperienza rispetto ai “peccati” e alle motivazioni che erano all’origine della scelta compiuta. Solo così si può spiegare a chi contesta la circolarità del Cammino, l’implicito legame a doppio senso che risiede tra la fuga dal mondo e il ritorno in esso.
La via di Santiago e la via Francigena consistono contemporaneamente in una continua ricerca di distacco e un timido approccio di riconciliazione, un rifiuto delle difficoltà e dei problemi che attanagliano il presente e la voglia di riscoprire l’essenza personale. Questi saranno i motivi che, per la maggior parte del tempo, faranno tribolare il peregrino, in misura nettamente superiore ai danni fisici, ma solo ed unicamente perché ancora incapace di attingere a piene mani dal calice della saggezza e dalla fonte dell’equilibrio interiore, qualità che permettono all’uomo di superare qualsiasi ostacolo. Si capisce bene, quindi, che oltre ad essere caratterizzato dalla circolarità, il viaggio che ripercorre gli antichi passi dei camminanti consta di due livelli: uno esteriore, il viaggio vero e proprio, inteso nel senso letterale, comune a tutti, ed uno interiore, allegorico, se vogliamo, e facente capo ad una dimensione più intima, difficilmente condivisibile con altre persone.
Una volta finito di camminare e posta la parola fine sul viaggio, inizierà il Cammino metafisico che non sforzerà più i muscoli delle spalle e delle gambe, ma convergerà completamente nell’animo del camminante e queste dinamiche interiori si rifletteranno, senza dubbio alcuno, sulla sua vita. L’esito ultimo del viaggio è duplice, così come le altre caratteristiche del Cammino: se da una parte premia il pellegrino, donandogli un’interiorità più acuta, una serenità ed una sensibilità maggiori, dall’altra gli infonderà un fortissimo senso di estraneità una volta tornato a casa. Niente avrà più lo stesso colore o lo stesso sapore; le sensazioni una volta familiari che assumevano lo status di certezze, definite nel tempo e nello spazio, si riveleranno deboli e caduche. Se vogliamo è l’unico effetto collaterale di un’esperienza rigenerante e rinvigorente per anima e corpo.


© Renato Paone - renato.paone@hotmail.it - facebook
Settembre 2014

Cfr anche: Ventesimo anniversario della Francigena, itinerario culturale del Consiglio d’Europa. In viaggio da Canterbury a Roma sulle orme di Sigerico



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