Delle Delizie Tarantine. Niccolò D’Aquino - Traduzione di Lucio Pierri - nuova edizione

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  • Prezzo: € 40.00
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    Descrizione:

    In 8°, 660 pp.

    “Delle delizie tarantine” è un poema latino in quattro libri, composto sul finire del’600 da Tommaso Niccolò D’Aquino: rimase a lungo manoscritto, ma circolava lo stesso negli ambienti eruditi.
    Tommaso Niccolò era un “patrizio di Taranto“ che in quegli anni turbinosi di passaggio da un secolo all’altro si godeva gli agi ed il benessere, i privilegi del suo ceto, trascorrendo le ore ed i giorni nel palazzo di città o nelle masserie di campagna, tra le cure del patrimonio e i piaceri della caccia. Nelle more, componeva versi latini alla maniera di Virgilio, poiché aspirava ad entrare come “vate” nell’Accademia dell’Arcadia. Celebrava con le cadenze dell’ultimo barocco le selve e i campi, il mutare delle stagioni, il vario fluire delle acque. Descriveva, anche, le varie specie viventi che popolavano, innumerevoli, la terra ed i cieli, i fiumi e i laghi, l’immensa distesa del mare.
    Ce lo immaginiamo – e lo dice egli stesso con i suoi versi latini – seduto su uno scoglio, di fronte al mare azzurrissimo in uno splendido tramonto sul golfo, declamare i suoi versi, mentre le onde con il rumore della risacca sembravano volerlo applaudire (“plausitque fluens mea carmina rivus”).
    Tutt’intorno dilagava la miseria e l’ignoranza. Nella Puglia turbolenta di fine ‘600, non si erano spenti i conati di rivolta che avevano insanguinato la metà del secolo. Torme di mendicanti affollavano le strade, si assiepavano alle porte dei palazzi e dei conventi, e bande di briganti popolavano i boschi appena fuori dei centri abitati.
    L’opera di D’Aquino fu data alle stampe molti anni più tardi, nel 1771 a Napoli, in un’altra temperie socio-culturale: fu pubblicata a cura di un suo lontano parente, Cataldantonio Atenisio Carducci, “nobile fiorentino e patrizio di quella città”.
    In realtà i Carducci erano, pure, fra le prime famiglie di Taranto. Possedevano palazzi in città e una quantità di beni rustici, fra cui la masseria Carduccia alle foci del Tara.
    Cataldantonio s’era formato nella Napoli illuminista di Carlo III e Ferdinando di Borbone, la Napoli di Genovesi, Filangieri e Galiani. Conosceva Locke e Hume, la Francia di Voltaire e degli enciclopedisti. Tradusse in ottava rima le “Delizie” del D’Aquino e le arricchì con uno straordinario corredo di note. Solo con queste “annotazioni” il poema assume validità ed importanza, diventa testimonianza di un’ epoca e di un ambiente. Costituisce un’opera complessiva di storia e d’arte, in cui il fascino dei luoghi e delle cose, espresso da D’Aquino con i toni un po’ aulici e manierati della poesia bucolica, si sposa in Carducci con l’esatta descrizione dei siti, l’osservazione degli usi e delle costumanze, la scrupolosa definizione dell’ambiente animale e vegetale. In un continuo rimando alla storia della città, ai personaggi famosi, alle glorie passate. Con precisi raffronti con la vita civile, i costumi e i modi di vita, le consuetudini e le istituzioni nella loro evoluzione nel tempo.
    Pochi esempi, fra i tanti. L’urbanistica dell’antica Taranto. La città si estendeva verso oriente, dalle sponde del Mar Grande sino al Pizzone, da cui si dipartiva un ponte che la collegava, attraverso Punta Penna, con il resto del territorio. Così com’è ora. E, come ora, un’altra propaggine esisteva nella parte occidentale, tra il Galeso e il Tara: una specie di porta della fertile “chora” tarantina che si prolungava sino a Metaponto e a Eraclea. Un grande canale (non vi era il ponte di pietra) metteva in comunicazione il Mar Grande con il Mar Piccolo, i due porti della città: quello interno per la flotta militare, quello esterno per i traffici mercantili con tutto il mondo conosciuto, dalla Crimea all’Egitto, dalla Spagna alla Cornovaglia.
    La Taranto del VI-IV sec. era una città immensa, di quasi trecentomila abitanti (a paragone, Atene e Sparta erano poco più che villaggi), le strade diritte e piane di impianto ippodameo, le piazze con le statue degli dei, le basiliche e i templi, il Museo ed i ginnasi. Una robusta muraglia circondava la città e rendeva inespugnabile il suo centro vitale. Quella che Carducci chiamava la rocca era l’agorà, il cuore vivo e pulsante della Taranto megalo-greca.
    A questa piccola parte s’era ridotto l’abitato all’epoca di D’Aquino e di Carducci. L’isola, sin dai tempi di Niceforo Foca, era tutta la città, occupata per oltre la metà da conventi e palazzi nobiliari, il resto affollata di gente e di miseria, tra vicoli ristretti e povere abitazioni.
    I pesci e le attività piscatorie. Sulle orme di Niccolò Partenio Giannattasio, il poliedrico gesuita che aveva pubblicato un secolo prima “una storia naturale” dei pesci, ma con maggior rigore metodologico (era uscita nel frattempo l’opera monumentale di Linneo), Carducci classifica i pesci, descrive con meticolosa precisione la loro morfologia, il loro habitat e i loro usi, cogliendo le differenze fra quelli del Mar Grande e del Mar Piccolo. Fornisce preziose informazioni sulla pesca, assunte direttamente dai pescatori le cui tradizioni di lavoro e norme di vita affondavano nel buio dei secoli e nelle pieghe di un passato remoto.
    Altre notizie interessanti. Sul pesce tonno (dieci pagine di descrizione) e la tonnara di Capo San Vito, sulla pescicultura nei vivai lungo la costa, sulla coltivazione i “giardini” dei mitili, le mitiche cozze di Taranto. E le industrie del mare ormai scomparse: la porpora e il bisso, la produzione delle ostriche, di cui Taranto andava un tempo famosa.
    E, ancora, le istituzioni cittadine. Le magistrature della Magna Grecia e di epoca romana, ricostruite attraverso la letteratura e l’antiquaria (da poco Alessio Simmaco Mazzocchi aveva illustrato le tavole bronzee di Eraclea), quelle tardo-medioevali angioine o aragonesi, le prammatiche vicereali, i nuovi ordinamenti dell’età borbonica.
    Si intravede, nell’articolata descrizione di Carducci, la lotta tra le classi, riacutizzata nella seconda metà del ‘700, la lunga faticosa ascesa di quel “ceto mediano” preconizzato da Genovesi, della borghesia agraria e professionale che stava emergendo in campo economico e sociale, preparando i tempi nuovi che esploderanno in Italia e in Europa, anche da noi, dopo la rivoluzione francese e la Repubblica Partenopea del 1799.
    Infine le tarantolate, nelle note del quarto libro. Un fenomeno che Carducci inquadra in maniera razionale, utilizzando gli studi di Baglivi, Serao, Athanasius Kircher. Per ottantaquattro paragrafi esamina la questione da un punto di vista medico, psicologico, antropologico e sociale, precedendo quasi Ernesto De Martino. Utilizza persino la zoologia comparata per assolvere da ogni colpa, alla fine della sua disamina, le innocue tarantole pugliesi, le “nostre diffamate bestiole”, com’egli le chiama.
    E così per molti altri argomenti, ognuno dei quali potrebbe costituire motivo di studio, per chi avesse la voglia di farlo: le pratiche religiose, le feste civili, gli usi e i costumi della gente, nel lontano passato come ai suoi tempi.
    Il poema di D’Aquino è il testo sacro della tarentinità. Un libro cult che tutti i cittadini di Taranto (e del circondario) dovrebbero aver letto. Le “annotazioni” del Carducci, poi, sono alla base della storia religiosa e civile, dell’etno-antropologia, degli studi locali che hanno impregnato nell’800-900 tutta la cultura del territorio.
    Eppure pochi lo conoscono, in genere per sentito dire. Perché non è facile oggi comprendere il latino, e non sempre le traduzioni hanno corrisposto nel passato al gusto dei lettori.
    Il bel volume “Delle delizie tarantine” stampato di recente dall’Editrice Scorpione di Piero Massafra tenta di superare questo gap. La versione in prosa di Lucio Pierri è semplice e piana, pur mantenendo i toni alti della poesia. Le note, riprodotte in anastatica (dall’edizione settecentesca), non comportano per il lettore un po’ scaltrito particolari difficoltà.
    Può essere questa un’occasione, attraverso un libro da sfogliare nelle sere d’inverno, di approfondire la propria cultura e allargare la conoscenza dei luoghi, la storia della città dove siamo nati e dove crescono i nostri figli e nipoti. Chissà se la riflessione sul passato, sugli eventi e i personaggi, sui monumenti e l’arte, può essere la giusta occasione per ripensare il presente e preparare, per tutti, un futuro migliore.

    http://www.corrieredelgiorno.com/2014/01/10/la-deliziosa-taranto-del-nostro-daquino/