Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale - Marcello Barbanera (a cura di) - Esaurito

di Aa.Vv.

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  • Prezzo: € 75.00
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    Descrizione:

    ill. col. e b/n - 510 pagine

    Nella storia di ogni monumento o edificio del passato deve essere giunto il momento dell’ultima ricostruzione, dell’ultima manutenzione, prima che qualcuno giudicasse che non ne valeva piú la pena, e che la costruzione fosse abbandonata all’azione della pioggia, della polvere, infine dei saccheggiatori. Quel giorno fatidico – il momento, conscio o inconscio che fosse, dell’abbandono, vero legame tra la microstoria e quella dei grandi eventi – ha segnato, per innumerevoli costruzioni, il passaggio dalla sfera della vita e del continuo adattamento al mutare della società a quella del degrado e dell’oblio finale. Ci viene cosí rammentato che ogni creazione umana, oltre a essere fatta di materia e immagine, è anche un intreccio inestricabile di relazioni sociali, speranze e significati, che si estendono ben al di là del momento della sua creazione. Una volta abbandonato il monumento, se la materia inizia lentamente a invecchiare, l’immagine si decompone a maggiore velocità, e le relazioni sociali ritornano fluide, in attesa di coagularsi in nuove invenzioni, in nuovi progetti. In tal modo i «relitti» cominciano a essere sistematicamente «riletti», proprio mentre essi iniziano a mutare, nello sforzo di generare nuovi valori culturali, di negare o rafforzare, con le finalità piú disparate, le letture dei tempi precedenti.
    In questo volume Marcello Barbanera ha sapientemente raccolto i contributi presentati in occasione di un convegno tenutosi a Roma nel 2007.
    Racconta di essere stato spinto a questa ampia riflessione dalla sua intima conoscenza delle costruzioni di Roma e Berlino. La prima, capitale di un impero millenario, trasformato, al di là del crollo, nell’ideale cuore culturale dell’Occidente; la seconda, quasi rasa al suolo prima di potersi trasfigurare nella capitale di un’Europa imperiale della quale – comprensibilmente – nessuno vuole piú ricordarsi. La materia ultima di queste riflessioni è un personale senso della fragilità della storia e delle vite individuali, alimentata dalla piú grande rovina della storia recente: il vuoto di Ground Zero, lo spazio negativo dell’assenza delle Torri Gemelle cadute l’11 Settembre 2001. Le Torri sono oggi una rovina tanto piú sinistra e incombente in quanto del tutto assente. Chi lo volesse, come ben spiega questo volume, potrebbe davvero intraprendere una ricerca seguendo il filo che connette le «rovine invisibili» di edifici storici e monumenti scomparsi dalla superficie terrestre: basti pensare alla Torre di Babele, al tempio di Gerusalemme, al Labirinto di Erodoto, alle costruzioni di Alessandria e alla Bastiglia: l’immortalità storica, il «valore mnesico», sembrano garantiti piú dalla totale scomparsa che dalla conservazione delle murature.
    «Sarebbe impresa titanica solo sfiorare le facce molteplici del poliedro rovina», afferma Barbanera, che si definisce scrutatore contemporaneo di rovine e decadimenti, ma anche della sopravvivenza, dei lampi di immortalità e ricerca di sapere che scaturiscono dai relitti del tempo. Il volume parte dalle valutazioni politiche degli autori latini sulla devastazione dei paesaggi italici durante le guerre civili romane, alla lettura moraleggiante e nostalgica delle grandi rovine di Roma antica nel Medioevo e nel Rinascimento, per abbracciare le molteplici valenze della «pittura rovinista» tra la fine del Cinquecento e gli inizi dell’Ottocento, e poi la «poetica delle rovine», nata nell’Illuminismo come riflessione sulla condizione umana e dilatata all’inverosimile dai contrastanti sentimenti del Romanticismo. Si giunge infine al gusto estetico per il frammento come «capolavoro del destino», invece che per la completezza, idea maturata nello stesso arco di tempo, ma che sembra anticipare alcune delle piú radicali conquiste dell’arte moderna. Oltre la cortina delle suggestioni e delle idee, percepiamo la trama degli eventi storici, ma anche di tormentate scelte politiche, come le vicende quasi incredibili che ci vengono narrate da Yannis Hamilakis a proposito della continua manomissione dei lacerti delle costruzioni dell’Acropoli di Atene, nel nome della sistematica cancellazione del passato turco e di una impossibile rincorsa alla purezza formale che avrebbe ispirato il complesso originale del V secolo a.C. Hamilakis ci narra puntualmente e con acume le tappe di una «monumentalizzazione classicistica» che ha caparbiamente rimosso ogni traccia del lungo vissuto del luogo, contrastata solo dalla «resistenza della materia», la capacità delle pietre e delle cose di narrarci alcuni eventi del passato, oltre ogni interesse contingente.
    Siamo poi condotti di fronte ai progetti (poco noti, e mai realizzati) di riuso del Colosseo, nel Seicento e nel Settecento, come sede di spettacoli popolari e cacce ai tori, oppure di filande, e alla sua graduale cristianizzazione; alla visionaria e possente progettazione urbanistica e archeologica di Giuseppe Valadier (1763-1839) sui ruderi del centro di Roma; ma anche alle rovine di Priene, Mileto e Pergamo, ricostruite a piú riprese negli ultimi due secoli sui propri siti archeologici, ma anche arbitrariamente musealizzate in Germania, come si vede al Pergamonmuseum di Berlino. Il volume narra dei programmi fascisti scatenati con il celebre «piccone del regime» sul patrimonio architettonico e archeologico del centro di Roma, e degli ingenti sforzi degli archeologi italiani di far risorgere le antichità greche e romane di Libia dalle sabbie delle coste mediterranee, in previsione di un prossimo futuro turistico della colonia. Vi è spazio anche per la ricreazione scenica del Palazzo di Cnosso in quanto rovina spettacolare e «brillante falso d’autore», proposta come elemento portante della tesi di una culla cretese della civiltà europea. Vi è ben poco, in questo brulicare di eventi, in questo continuo scontro di interessi e vedute, della serena linearità storica con la quale spesso viene riassunta la storia artistica di monumenti e di intere città. Eppure tutto ciò ha anche il sapore di una perduta vitalità. I grandi progetti architettonici e urbanistici, nei quali le costruzioni coincidono con le distruzioni, che lo si voglia o meno, sono parti importanti dei grandi flussi storici. L’Europa dei regimi fascisti aveva sognato di rivivificare nel razionalismo la grandiosità dell’urbanistica romana imperiale; ma a essa spetta il singolare primato di aver creato colossali ammassi di rovine, senza che grandiosi monumenti avessero vita, o dopo sprazzi di vita davvero effimera. Albert Speer, l’architetto di Hitler, come si ricorda in alcuni passi del volume, aveva convinto il Führer a bandire dalle sue costruzioni acciaio e cemento armato, che si potevano corrompere, perché solo edifici fatti di materiali stabili come quelli usati dagli antichi Romani (mattoni e calcestruzzo) avrebbero potuto tramandare ai posteri la grandezza della Germania nazionalsocialista e del nuovo millenario Reich.
    Idee grandiose, destinate a finire nel nulla, pagate con milioni di morti e la devastazione delle parti migliori del continente europeo (ma ancora capaci di destare aspiranti emuli tardivi, come, in Iraq, il caduto Saddam Hussein, che dalle rovine assire e babilonesi traeva giustificazioni per la sua immagine e le sue azioni). Man mano che scompaiono i testimoni diretti dell’era fascista, e con essi i ricordi piú tragici, tutto questo lentamente assume il sapore di un mondo parallelo e scomparso. E, oggi, mentre la palma dei primati economici e culturali sta inesorabilmente dissolvendosi dalle mani dell’Occidente per materializzarsi in quelle dei «giganti asiatici» di Cina e India, possiamo invece intuire che costruire, abbandonare e «rileggere» le rovine del futuro spetterà anche a interpreti di altre – e piú giovani – parti del mondo.